mercoledì 28 dicembre 2011

Luoghi che non esistono più

Dunque: posto che di arte figurativa non capisco niente[1], oggi, mentre cercavo un'immagine per il mio (a questo punto prossimo) post, sono capitato sul sito di Rebecca Agnes.
La sua biografia potete leggerla lì, ma soprattutto potete guardare la testimonianza di una sua installazione del 2010 presso la Artopia Gallery di Milano: "luoghi che non esistono più". Dategli un'occhiata, e poi tornate qui a finire di leggere il post (o anche no).
Ripeto, di arte non capisco nulla, ma a me è sembrata un'idea bellissima: la riproduzione (e le testimonianze) di alcuni luoghi della Milano "alternativa"[2] del periodo tra gli anni '80 e '90 mi ha veramente colpito. Con un misto di nostalgia e rimpianto per quegli anni, certo che sì, perchè quella ricordata nell'installazione era la zona[3] di Milano dove succedevano le cose: i luoghi della Milano "migliore". Non quella dei paninari e dei Duran Duran.[4]

Dei negozi di dischi avevo già parlato in questo post, quindi non mi ripeto, ma molti degli altri luoghi citati erano luoghi che ho egualmente frequentato per anni: il Bar Verde, Surplus, il negozio di strumenti musicali di Porta Ticinese (dove, insieme con un mio amico, avevo comprato un sax - che non ho mai imparato a suonare...), e quasi tutti gli altri.
E naturalmente mi vengono in mente tutti gli altri luoghi che non esistono più e che non sono stati riprodotti dall'autrice della mostra: primo di tutti, la Calusca di Primo Moroni, quando era all'inzio di Porta Ticinese, e poi il negozio di magliette di Giacomo Spazio al Carrobbio, Psycho in via Molino delle Armi, l'altro negozio di strumenti musicali (di cui non ricordo il nome) al Carrobbio (dove ho comprato il mio primo basso), il negozio di vestiti usati di fronte al Discomane (cioè, sull'altro lato del Naviglio), lo Specchio di Alice (che forse esiste ancora però, l'ultima volta che sono passato da Porta Ticinese c'era), l'Art Noveau a Monza, e la Fiera di Senigallia in piazza Vetra, il Virus, il Leoncavallo "originale" in via Leoncavallo, e...

E' una sorta di archeologia industriale della memoria, posti che erano al centro delle nostre vite in quegli anni e che sono spariti.
Segno del tempo che passa e del fatto che ci stiamo avvicinando a grandi passi ai 50 anni (mi sembra di essere mio nonno che raccontava che da giovane faceva il bagno nel naviglio).
Ma per una volta, mi arrendo al rincoglionimento della nostalgia.
Anche se di quei posti non penso che fossero "migliori" di quelli di adesso (che spariranno, e fra tra trent'anni saranno rimpianti dai ventenni di oggi).
Erano lì in quel momento, e c'ero anch'io: resta un po' di dispiacere per una parte della mia vita non esiste più.


Note e links:
[1] "Già, bravo, perchè credi di capire qualcosa di musica?" Me lo dico da solo, così magari mi risparmio un paio di commenti anonimi... :)

[2] Passatemi la definizione, non me ne viene una migliore.

[3] Diciamo Porta Ticinese, Alzaia Naviglio Grande, Darsena, Piazza Vetra, Carrobbio, via Torino.

[4] E' un riferimento alla discussione sui Duran Duran fatta sul blog di DiamondDog? Si, certo.

mercoledì 21 dicembre 2011

Ascolti recenti - dicembre 2011

Picchio dal Pozzo[1] - Picchio dal Pozzo (1976)

Disco del 1976, sempre ignorato per il nome (orribile) e la nomea progressive (si, sono prevenuto).
Ne ha parlato un articolo recente di Sentireascoltare, e mi sono lasciato incuriosire dal fatto che il disco fosse dedicato a "Roberto Viatti", ovvero Robert Wyatt.
C'è qualcosa del Canterbury sound, c'è qualcosa di progressive e c'è molta musica da qualche parte tra jazz e art-rock che non mi mai detto niente. Belli però il primo "Merta", quasi ambient, e l'ultimo pezzo, "Off". Nel complesso, passo.

ten[2] - Lowlands (2011)

Vengono da Leeds, sono uno dei tanti gruppi ascoltati grazie a Bandcamp e al forum "Your own material" di After The Post Rock, ma anche uno dei non molti ad essere sopravvissuti al primo passaggio dall'iPod.
Musica di atmosfera, tra ambient e modern classical. O post-rock senza crescendo di chitarre smandolinanti: pianoforte, archi (sintetici o campionati) e qualche idea più carina della media.


Ekca Liena[3] - Preternatural (2011)

Ekca Liena, cioè il gruppo che mi ha fatto scoprire la musica drone.
Il primo album, "Slow Music For Rapid Eye Movement", era un capolavoro del genere "drone per chitarre distorte", al limite del post-metal in alcuni passaggi (e sento già le orecchie che fischiano qui...)
Poi hanno sofferto un po' della classica iper-produzione di molti gruppi diy, e molte delle cose pubblicate dopo quel primo lavoro (recentemente riedito dalla Dead Pilot Records) avrebbero potuto essere meditate di più.
L'ultimo lavoro ("Preternatural", split cd con A Death Cinematic, in anteprima sui Bandcamp, sarà disponibile fisicamente a gennaio) è finalmente ben a fuoco: tornano le chitarre, le atmosfere sono quasi dark, e soprattutto arrivano tre brani che sono un passo avanti rispetto ad alcune prove un po' sfocate.
Ekca Liena è lo pseudonimo di Daniel W.J. Mackenzie, attivo anche nei Plurals e come "solista" con un paio di lavori a suo nome.


Mauro Ermanno Giovanardi[4] - Ho sognato troppo l'altra notte? (2011)

"Joe dei Carnival" per chi era a Milano tra la metà degli anni '80 e i primi anni '90, anche dopo aver dato vita ai La Crus (con Cesare Malfatti e Alex Cremonesi).
E' sempre stato un cantante tecniamente "bravo", con una bella voce e ottime doti interpretative, a volte eccessivamente nickcaviano sul palco.
E' andato a Sanremo con un pezzo decente, ma il vero capolavoro dell'album (tra atmosfere anni '60, garndi orchestre, arrangiamenti di archi e fiati squisitamente "pop" d'epoca, molto più nel senso di "Canzonissima" che di Sanremo) è "Desìo (il rumore del mondo)", canzone che per me è il migliore pezzo pop ascoltato nell'anno.


Cesare Malfatti[5] - Cesare Malfatti (2011)

E a proposito di Cesare Malfatti, è uscito (più o meno) il suo primo disco solista, da lui interamente suonato, con la sola collaborazione di Alex Cremonesi per i testi.
Ex-chitarrista di quasi tutti i miei gruppi milanesi preferiti (Weimar Gesang, Afterhours, La Crus), in una bella intervista su The Breakfast Jumpers spiega molte cose riguardo alla nascita del disco e alla scelta dell'autoproduzione diy, con cd stampato, cucito a mano, datato, numerato e intestato personalmente a chi lo richiede (anche se il prezzo, boh... 20 euro?)
Sentito da Bandcamp, il disco è musicalmente tra l'interessante e il molto interessante, quasi sempre lontano dal pop orchestrale degli ultimi La Crus: qui c'è un minimalismo di fondo (parti strumentali misurate e arrangiamenti non invadenti) che mi piace molto.
Poi ecco, Cesare canta. L'unica cosa che mi sento di dire è che lui è un chitarrista. Ci fosse stato un cantante, sarebbe stato un ottimo disco.
Così, mah... difficilmente gli darò altri ascolti.


Note e links:
[1] Sito ufficiale di Picchio dal Pozzo

[2] Trovate il disco su Bandcamp.

[3] Ekca Liena su Bandcamp e su MySpace. Il disco lo trovate sul sito dell'etichetta small doses, altre produzioni sul sito della Dead Pilot.

[4] Sito ufficiale di Mauro Ermanno Giovanardi

[5] Cesare Malfatti su Bandcamp e sul suo blog

lunedì 19 dicembre 2011

Dead Can Dance

Ma guarda te, i Dead Can Dance: hanno pubblicato due ep dal vivo gratuiti, in download dal loro sito.
Non li ascoltavo da parecchio tempo: direi dal quarto album, quello con il serpente in copertina. Ah no, avevo sentito anche l'ultimo cd, "Spiritchaser", ma non era andato oltre un paio di ascolti distratti.
Per un certo periodo sono stati un punto di riferimento: il post-punk/dark del primo album, le ambientazioni via via più medievaleggianti/folk/neo-classiche dal secondo album in poi, la voce surreale e ultraterrena di Lisa Gerrard (grandi dosi di riverbero e grandi doti vocali naturali), l'esperienza laterale di This Mortal Coil.

Ricordo un concerto fantastico all'Odissea 2001, credo fosse il tour del secondo album, grande impatto sonoro tra strumenti elettrici, acustici e percussioni, Lisa di bianco vestita e ieratica, Brendan Perry con i capelli da paggio medievale a guidare una grande band.
Poi si sono (in)(ev)oluti verso il medioevo, sino a scomparire tra il rumore di fondo del mondo[1], altri erano i fragori alla ribalta, tra psy-noise-slacker-grunge.
Riformati per un tour qualche anno fa, visto in video: Lisa sempre ieratica, Brendan completamente pelato(!), e un suono identico a quello che ricordavo.

Ho ascoltato i due ep: belli, ben registrati, gratuiti: cosa volere di più?
Nah, ma chi voglio prendere in giro? C'è molto da volere di più.
In questi due ep gratuiti c'è un pezzo ancora molto bello ("Nierika"), ci sono alcuni brani interessanti, altri pretenziosi e inutili. Ma tutti, dal primo all'ultimo, sono identici a come erano venti o trent'anni fa, e i DCD sono diventati esattamente come i Rolling Stones o i Pink Floyd, cover-band un po' ridicole di sè stessi, costretti a ripetersi eternamente, con un misto di coerenza e mancanza di coraggio in cui è difficile capire dove comincia il primo e finisce l'altro.[2]

Nel complesso, visto che sono in download gratuito, i due ep sono consigliabili solo:
- a chi non avesse mai ascoltato nulla dei DCD;
- a chi fosse un inguaribile nostalgico degli anni '80 e del dark.
Per tutti gli altri, ci sono cose molto più interessanti in giro.

Note e links:
[1] Citazione da uno dei brani pop italiani più belli dell'anno. Il primo che indovina il brano non vince niente.

[2] Come tanti altri, eh: ma siamo alle solite, è difficile rimanere "artisti" quando l'arte diventa il tuo lavoro. Tocca accontentarsi di essere entertainer, più o meno credibili.
Non c'è nulla di male in questo, solo che a me non interessa.

venerdì 16 dicembre 2011

Frippertronics

Frippertronics è una tecnica musicale perfezionata da Brian Eno e Robert Fripp nel 1972.
Il principio su cui si basa è quello del "loop". Non una cosa nuova nemmeno all'epoca: i tape-loop erano già stati usati nella musica sperimentale/elettronica fin dagli anni '50.
Già i Beatles ne avevano fatto uso, ad esempio in "Tomorrow Never Knows" vennero usati i tape-loops realizzati amatorialmente da Paul McCartney, e qualcosa di simile a Frippertronics era già stato realizzato da Terry Riley.

Nei tape-loops, cioè "anelli di nastro", un suono viene registrato su un nastro, poi il nastro viene tagliato ed incollato creando un vero e proprio anello, generalmente della durata di qualche secondo, che viene poi riprodotto attraverso un registatore senza soluzione di continuità.
La stessa tecnica del tape-loop era ad esempio alla base di uno strumento come il Mellotron, che non era altro che una tastiera che associava ad ogni tasto un nastro con la registrazione di una nota musicale di uno strumento.
Che a sua volta è la stessa tecnica, trasportata nel dominio digitale, dei campionatori, che realizzavano la registrazione non più su nastro ma in forma digitale, con tutti i vantaggi di possibile manipolazione successiva di quanto registrato.

Ed è la stessa tecnica che sta alla base dei chorus e dei delay[1] (analogici e digitali), che non sono altro che variazioni sul tema della riproduzione con un ritardo più o meno lungo del suono originale.
E, per finire, è la stessa tecnica che ha portato ai registratori digitali, a loro volta nulla più, tecnicamente parlando, di un delay digitale o di un campionatore con tempi di campionamento enormi.

Frippertronics introduceva una significativa novità: attraverso l'uso di due registratori a nastro in serie era possibile registrare e riprodurre nello stesso tempo.
La chitarra veniva incisa sul nastro dal primo registratore, il nastro scorreva fino al secondo registratore dove veniva riprodotto e contemporaneamente reinviato, via mixer, al primo registratore, dove il segnale veniva mixato alla chitarra suonata in diretta e reinciso.
Il loop era quindi "virtuale"[2], realizzato attraverso i collegamenti dei due registratori e non più fisicamente con forbici e colla.
Attraverso i successivi passaggi, la registrazione più vecchia veniva via via attenuata dalle caratteristiche fisiche del nastro e dal continuo processo di re-incisione. L'immagine qui sotto esemplifica il procedimento:


Al giorno d'oggi esistono sia pedali digitali [loop-machine] che effetti virtuali che replicano grosso modo questo procedimento, diretti discendenti dei primi delay digitali che venivano usati qualche anno fa allo stesso modo dei due regitsratori dei Frippertronics.

Uno di questi, un VST gratuito per Windows, è Elottronix[3] della Elogoxa, prodotto in due versioni (normale ed XL) ed è modellato proprio sullo schema riportato poco sopra.

Lo stesso Ableton Live[4], uno dei software di DAW[5] più originali sul mercato, è in realtà una macchina da loop enorme, che offre possibilità inimmaginabili all'epoca dell'invenzione dei Frippertronics.

L'applicazione concreta dei Frippertronics è rintracciabile in diversi album di Fripp e Eno.
L'album "Let the Power Falls" (sottotitolo: "An album of Frippertronics") è l'applicazione più notevole, ma altri esempi si possono trovare su "No Pussyfooting", "Discreet Music", "Evening Star".
Ci sarebbero anche le teorie elaborate da Fripp intorno ai Frippertronics, ma ve ne faccio grazia.


Note e links:
[1] Dei delay digitali si è già parlato qui.

[2] La lunghezza del loop (o delay) era proporzionale alla distanza "fisica" tra i due registratori.

[3] Maggiori informazioni su Kvr, la bibbia degli appassionati di DAW e strumenti virtuali.

[4] Non esattamente a buon mercato, da 350 a 700 euro per le diverse versioni, e 100 euro per la versione base, ma a questa cifra Ableton Live offre un'interfaccia tra musicista e computer (La "Session View") davvero unica ed innovativa.

[5] Digital Audio Workstation, cioè un programma che trasforma un computer in, semplificando, un registratore digitale.
Semplificando perchè, attraverso la tecnologia VST, sviluppata negli ultimi quindici anni dalla Steinberg, è possibile avere su un normale computer effetti (VST) e strumenti (VSTi) virtuali, che rendono disponibili a tutti suoni e tecniche di elaborazione che solo vent'anni fa non erano immaginabili neppure nei più costosi studi di registrazione.

[6] Aggiungo, che me li ero dimenticati, alcuni links per chi volesse ascoltare al volo qualcosa: una dimostrazione dei Frippertronics e due pezzi, 1986 e 1987, dall'album "Let the Power Falls".

mercoledì 14 dicembre 2011

Cose intelligenti dette sulla musica - terza parte

Dunque: questa me la ricordavo in un'intervista a John Entwistle[1] su un Mucchio Selvaggio dei primi anni '80, credo il nr. 43 (?)
Non avevo voglia di andare in cantina a riaprire scatoloni, ma per fortuna l'ho trovata sul sito della BBC.

"I'm only interested in heavy metal when it's me playing it," John once said,"I suppose it's a bit like smelling your own farts."[2]

Che altro dire? Mi sembra che non servano commenti.
A meno che non si voglia cominciare a dire che Entwistle di musica non capiva un cazzo, che era arrogante e provocatorio, che era prevenuto e offensivo, e via di seguito.


Note e links:
[1] Di John Entwistle si era già parlato in questo post, tra l'altro proprio a proposito di tecnica strumentale e percezione della stessa.

[2] "Mi interessa l'heavy metal solo se sono io a suonarlo. Penso che sia un po' come annusare le proprie scoregge".

lunedì 12 dicembre 2011

Questa non è musica, dai!

Lucrecia Dalt[1] - Congost (2009)
Dalla Bolivia. Medellin, pensate un po' (e qui avrei potuto inserire una battuta stupida sulla nostra eroina, e invece ho evitato).
Elettronica, loop di chitarre, un po' di folk, voce sussurrata, etc.
Un pezzo come "Ceniza" è di una bellezza incredibile, c'è anche il video, che, tra le altre cose, mostra come si possa costruire un pezzo in tempo reale per sovrapposizioni di loop di chitarra.
Lo trovate su "Congost", il suo disco del 2009 (a nome di "The Sound of Lucrecia") di cui è uscita recentemente una nuova edizione a nome di Lucrecia Dalt.
Per l'italiana La Bèl NetLabel ha pubblicato quest'anno un ep in download gratuito, in collaborazione con F.S. Blumm, intitolato "Quatro Covers": un pezzo a testa per Osvaldo Farres (non so chi sia), Iggy Pop, Burt Bacharach e Simon & Garfunkel. Indietronica "di classe"?

Nils Frahm[2] - Felt (2011)
File under: "modern classical".
Che sarebbe musica fatta con strumenti orchestrali classici, arricchita dai timbri dei synth e dalle possibilità dell'elaborazione elettronica del suono.
In sintesi, niente batterie pestate nè assoli di chitarra a pioggia. Altamente sconsigliato agli amanti dei baracconi mediatici: con un certo orrore mi rendo conto che di questo qui non ho mai neppure visto una foto.
Ha collaborato un po' con tutti nell'ambiente, da Peter Broderick (vedi sotto) a Machinefabriek, da Lucrecia Dalt (vedi sopra) a Emphemetry (vedi post precedente: "La musica moderna fa schifo").

Peter Broderick[3] - Home (2008)
"Music for Confluence" dovrebbe essere il suo ultimo disco in ordine di tempo, ma vista l'iper-produzione del nostro, che ha pubblicato più o meno un milione di dischi negli ultimi cinque anni, è impossibile esserne sicuri. Questo è una colonna sonora: album discreto, ma tra le sue produzioni preferisco "Home" del 2008 e "How They Are" del 2010, cioè quelli più vicini alla forma canzone.
Rispetto a Frahm, Broderick fa un lavoro di ricerca più orientato sulla composizione pura che sulle sonorità.
Polistrumentista, ha pubblicato anche un album di "duetti con sè stesso", suonati alternando due strumenti alla volta (piano, violino, viola, chitarra, etc.)

Noveller[4] - Glacial Glow (2011)
Pseudonimo della newyorkese Sarah Lipstate, già collaboratrice di Rhys Chatham (Guitar Army) e Glenn Branca (ensemble delle cento chitarre) è una sperimentatrice delle possibilità sonore della chitarra. Archetti, pedali elettronici, loop e rumori assortiti: Glacial Glow è l'ultimo disco ed è il più accessibile della sua produzione.
Trovate quasi tutto sul suo sito Bandcamp.
Su Youtube invece ci sono parecchi video live molto interessanti, ad esempio questo.


Note e links:
[1] Qui trovate il sito di Lucrecia Dalt, e qui il download di "Quatro Covers".

[2] Qui il sito di Nils Frahm, e qui una sua discografia.

[3] Qui il sito di Peter Broderick, e qui una sua discografia.

[4] Qui il sito di Sarah Lipstate/Noveller.

venerdì 9 dicembre 2011

Sentire e ascoltare: le parole della musica.

Nell'illustrazione: organo del corpo umano completamente inutile per gli appassionati di dischi in vinile e di gruppi rock in maschera

Sentire e ascoltare[1]: i due verbi non sono sinonimi.
Senza andare troppo in profondità nella grammatica italiana, ascoltare significa sentire consapevolmente, con particolare attenzione. E' la stessa differenza che c'è tra vedere e guardare.
Quando ci si riferisce alla musica, sembrerebbe che l'unico verbo adatto fosse ascoltare.
E invece no. La maggior parte delle persone si limita, curiosamente, a sentire.
Così facendo, come è ovvio, si perdono i significati che solo l'ascolto è in grado di veicolare: il semplice sentire non riesce a fornire un'esperienza appagante e completa.
E allora, per trovare i significati, diventa necessario rivolgersi altrove. Agli altri sensi, di solito: e così nascono le cazzate le teorie sull'importanza della copertina del disco, dell'odore del cartoncino e finanche del sapore e del colore del vinile.
Senza dimenticarsi la cazzata la teoria principe: l'analisi dei testi.
In un paese che ha una formazione musicale scolastica praticamente nulla, niente di strano. Se, come il 99% dei critici musicali, non sei in grado di parlare della tua materia con cognizione di causa, ti rifugi in quello che sei in grado di capire: guardare le copertine e leggere i testi.

Una delle citazioni preferite da chi non riesce/non è in grado a parlare di musica è questa[2]:
"Parlare di musica è come ballare di architettura".
Frase, a quanto pare, di Elvis Costello (le varie attribuzioni a Zappa, Burroughs, Mingus etc. sono errate).

Ma, come dice Franco Fabbri[3]:
"...la frase vorrebbe significare che usare un linguaggio a proposito di un altro è assurdo e un po' buffo, e che i critici musicali hanno pretese patetiche.
Mi spiace per Costello, uno dei musicisti che amo di più, ma è la frase ad essere buffa, e un po' patetici quelli che la citano gongolando, come se risolvesse il loro disprezzo per i discorsi sulla musica.
...è poi così strano usare linguaggio a proposito di un altro (con una funzione metalinguistica, si direbbe tecnicamente?)
Gesticolare di gastronomia: non lo facciamo tutti, noi italiani?
E poi, sono i musicisti per primi che parlano di musica. Spesso con un linguaggio diverso da quello dei critici, diverso da musica a musica, diverso da quello che usa chi non è nè musicista nè critico. magari fatto di segnali, di messaggi in codice, di metafore: ma è così che ci si capisce, quando si lavora insieme attorno alla musica.
E non parlano di musica proprio tutti, anche quelli che non possiedono un gergo tecnico, ma vogliono comunicare quello che provano quando ascoltano, le loro preferenze, i loro rifiuti? Sì, non ci dovrebbe essere niente di strano, di illogico a parlare di musica, o a scriverne..."


E Fabbri è fin troppo buono, eh: perchè la maggior parte delle recensioni di dischi è scritta da gente che non ha a disposizione un lessico tecnico-specialistico, e soprattutto non conosce l'abc della musica: saper suonare uno strumento.

Quindi, ecco le quattro categorie di recensione musicale che mi provocano la pecòlla:
  • la recensione che parla solo dei testi.
  • la recensione che cita armonia e melodia senza sapere di cosa sta parlando, composizione e arrangiamento senza che il recensore abbia mai nemmeno provato a scrivere una canzone.
  • in alternativa, le solite banalità pseudo-musicali chitarre taglienti, batterie potenti e bassi profondi. E queste ultime due categorie di recensori almeno ci provano, usando il linguaggio a loro disposizione. Cercano di comunicare.
  • la recensione che rinuncia del tutto a parlare di un disco specifico, e descrive le sensazioni provate dal recensore durante l'ascolto. Di solito da questo tipo di recensione si coglie prefettamente la bravura tecnica del recensore nell'uso della lingua italiana, e nulla del disco in questione. Tipo di recensione inoltre perfettamente intercambiabile e riutilizzabile all'infinito: basta cambiare il titolo e va bene per qualsiasi disco.


Note e links:
[1] I due verbi uniti (Sentireascoltare) fanno una delle poche riviste, sia pur on-line, di musica che ancora leggo con regolarità.

[2] Riciclo da un commento lasciato a un post di qualche tempo fa.

[3] Tratto da "L'ascolto tabù" di Franco Fabbri, che dedica alla frase un capitolo (pg. 252/254).

venerdì 2 dicembre 2011

Claudio Rocchi

E io che me lo sono sempre confuso con lo zingaro felice, Claudio Lolli.
Non avevo mai colto la differenza, nè realizzato che fossero due persone diverse, il Lolli ed il Rocchi.
E invece il Rocchi è quello che ha suonato negli Stormy Six, il fricchettone, lo sperimentatore, quello che è stato in India e ai festival pop degli anni '70.
Ne ho letto sul blog della Scighera qualche mese fa, è stata una folgorazione.
"Volo magico n. 1" è un pezzo - musicalmente - di un'attualità sconvolgente. Poi certo, il testo è un po' troppo "peace&love", ma è del 1971 (!), e quindi ci sta.

La musica è, accidenti, avanguardia pura, tra folk e psichedelia.
Direi che dovrebbe stare in ogni antologia di rock italiano, e non capisco come possa essere scomparso dalla memoria collettiva così in fretta, che son risucito a interessarmi di musica italiana per più di 25 anni prima di sentirlo nominare.
Se non l'avete mai ascoltato prima, fatelo.


Note e links:
Il sito ufficiale di Claudio Rocchi è piuttosto brutto, ma può essere un punto di partenza, insieme con il post ricordato sopra.

La sua produzione è stata piuttosto ampia e varia, di quest'anno un LP in collaborazione con i vercellesi Effervescent Elephants, storico gruppo psychedelico degli anni '80 ("Claudio Rocchi & Effervescent Elephants" per Psych Out) e un album solo (il 19°), "In alto", pubblicato dalla Cramps.

Un bel riassunto discografico lo trovate ad esempio sul blog di christo70.