mercoledì 28 dicembre 2011

Luoghi che non esistono più

Dunque: posto che di arte figurativa non capisco niente[1], oggi, mentre cercavo un'immagine per il mio (a questo punto prossimo) post, sono capitato sul sito di Rebecca Agnes.
La sua biografia potete leggerla lì, ma soprattutto potete guardare la testimonianza di una sua installazione del 2010 presso la Artopia Gallery di Milano: "luoghi che non esistono più". Dategli un'occhiata, e poi tornate qui a finire di leggere il post (o anche no).
Ripeto, di arte non capisco nulla, ma a me è sembrata un'idea bellissima: la riproduzione (e le testimonianze) di alcuni luoghi della Milano "alternativa"[2] del periodo tra gli anni '80 e '90 mi ha veramente colpito. Con un misto di nostalgia e rimpianto per quegli anni, certo che sì, perchè quella ricordata nell'installazione era la zona[3] di Milano dove succedevano le cose: i luoghi della Milano "migliore". Non quella dei paninari e dei Duran Duran.[4]

Dei negozi di dischi avevo già parlato in questo post, quindi non mi ripeto, ma molti degli altri luoghi citati erano luoghi che ho egualmente frequentato per anni: il Bar Verde, Surplus, il negozio di strumenti musicali di Porta Ticinese (dove, insieme con un mio amico, avevo comprato un sax - che non ho mai imparato a suonare...), e quasi tutti gli altri.
E naturalmente mi vengono in mente tutti gli altri luoghi che non esistono più e che non sono stati riprodotti dall'autrice della mostra: primo di tutti, la Calusca di Primo Moroni, quando era all'inzio di Porta Ticinese, e poi il negozio di magliette di Giacomo Spazio al Carrobbio, Psycho in via Molino delle Armi, l'altro negozio di strumenti musicali (di cui non ricordo il nome) al Carrobbio (dove ho comprato il mio primo basso), il negozio di vestiti usati di fronte al Discomane (cioè, sull'altro lato del Naviglio), lo Specchio di Alice (che forse esiste ancora però, l'ultima volta che sono passato da Porta Ticinese c'era), l'Art Noveau a Monza, e la Fiera di Senigallia in piazza Vetra, il Virus, il Leoncavallo "originale" in via Leoncavallo, e...

E' una sorta di archeologia industriale della memoria, posti che erano al centro delle nostre vite in quegli anni e che sono spariti.
Segno del tempo che passa e del fatto che ci stiamo avvicinando a grandi passi ai 50 anni (mi sembra di essere mio nonno che raccontava che da giovane faceva il bagno nel naviglio).
Ma per una volta, mi arrendo al rincoglionimento della nostalgia.
Anche se di quei posti non penso che fossero "migliori" di quelli di adesso (che spariranno, e fra tra trent'anni saranno rimpianti dai ventenni di oggi).
Erano lì in quel momento, e c'ero anch'io: resta un po' di dispiacere per una parte della mia vita non esiste più.


Note e links:
[1] "Già, bravo, perchè credi di capire qualcosa di musica?" Me lo dico da solo, così magari mi risparmio un paio di commenti anonimi... :)

[2] Passatemi la definizione, non me ne viene una migliore.

[3] Diciamo Porta Ticinese, Alzaia Naviglio Grande, Darsena, Piazza Vetra, Carrobbio, via Torino.

[4] E' un riferimento alla discussione sui Duran Duran fatta sul blog di DiamondDog? Si, certo.

mercoledì 21 dicembre 2011

Ascolti recenti - dicembre 2011

Picchio dal Pozzo[1] - Picchio dal Pozzo (1976)

Disco del 1976, sempre ignorato per il nome (orribile) e la nomea progressive (si, sono prevenuto).
Ne ha parlato un articolo recente di Sentireascoltare, e mi sono lasciato incuriosire dal fatto che il disco fosse dedicato a "Roberto Viatti", ovvero Robert Wyatt.
C'è qualcosa del Canterbury sound, c'è qualcosa di progressive e c'è molta musica da qualche parte tra jazz e art-rock che non mi mai detto niente. Belli però il primo "Merta", quasi ambient, e l'ultimo pezzo, "Off". Nel complesso, passo.

ten[2] - Lowlands (2011)

Vengono da Leeds, sono uno dei tanti gruppi ascoltati grazie a Bandcamp e al forum "Your own material" di After The Post Rock, ma anche uno dei non molti ad essere sopravvissuti al primo passaggio dall'iPod.
Musica di atmosfera, tra ambient e modern classical. O post-rock senza crescendo di chitarre smandolinanti: pianoforte, archi (sintetici o campionati) e qualche idea più carina della media.


Ekca Liena[3] - Preternatural (2011)

Ekca Liena, cioè il gruppo che mi ha fatto scoprire la musica drone.
Il primo album, "Slow Music For Rapid Eye Movement", era un capolavoro del genere "drone per chitarre distorte", al limite del post-metal in alcuni passaggi (e sento già le orecchie che fischiano qui...)
Poi hanno sofferto un po' della classica iper-produzione di molti gruppi diy, e molte delle cose pubblicate dopo quel primo lavoro (recentemente riedito dalla Dead Pilot Records) avrebbero potuto essere meditate di più.
L'ultimo lavoro ("Preternatural", split cd con A Death Cinematic, in anteprima sui Bandcamp, sarà disponibile fisicamente a gennaio) è finalmente ben a fuoco: tornano le chitarre, le atmosfere sono quasi dark, e soprattutto arrivano tre brani che sono un passo avanti rispetto ad alcune prove un po' sfocate.
Ekca Liena è lo pseudonimo di Daniel W.J. Mackenzie, attivo anche nei Plurals e come "solista" con un paio di lavori a suo nome.


Mauro Ermanno Giovanardi[4] - Ho sognato troppo l'altra notte? (2011)

"Joe dei Carnival" per chi era a Milano tra la metà degli anni '80 e i primi anni '90, anche dopo aver dato vita ai La Crus (con Cesare Malfatti e Alex Cremonesi).
E' sempre stato un cantante tecniamente "bravo", con una bella voce e ottime doti interpretative, a volte eccessivamente nickcaviano sul palco.
E' andato a Sanremo con un pezzo decente, ma il vero capolavoro dell'album (tra atmosfere anni '60, garndi orchestre, arrangiamenti di archi e fiati squisitamente "pop" d'epoca, molto più nel senso di "Canzonissima" che di Sanremo) è "Desìo (il rumore del mondo)", canzone che per me è il migliore pezzo pop ascoltato nell'anno.


Cesare Malfatti[5] - Cesare Malfatti (2011)

E a proposito di Cesare Malfatti, è uscito (più o meno) il suo primo disco solista, da lui interamente suonato, con la sola collaborazione di Alex Cremonesi per i testi.
Ex-chitarrista di quasi tutti i miei gruppi milanesi preferiti (Weimar Gesang, Afterhours, La Crus), in una bella intervista su The Breakfast Jumpers spiega molte cose riguardo alla nascita del disco e alla scelta dell'autoproduzione diy, con cd stampato, cucito a mano, datato, numerato e intestato personalmente a chi lo richiede (anche se il prezzo, boh... 20 euro?)
Sentito da Bandcamp, il disco è musicalmente tra l'interessante e il molto interessante, quasi sempre lontano dal pop orchestrale degli ultimi La Crus: qui c'è un minimalismo di fondo (parti strumentali misurate e arrangiamenti non invadenti) che mi piace molto.
Poi ecco, Cesare canta. L'unica cosa che mi sento di dire è che lui è un chitarrista. Ci fosse stato un cantante, sarebbe stato un ottimo disco.
Così, mah... difficilmente gli darò altri ascolti.


Note e links:
[1] Sito ufficiale di Picchio dal Pozzo

[2] Trovate il disco su Bandcamp.

[3] Ekca Liena su Bandcamp e su MySpace. Il disco lo trovate sul sito dell'etichetta small doses, altre produzioni sul sito della Dead Pilot.

[4] Sito ufficiale di Mauro Ermanno Giovanardi

[5] Cesare Malfatti su Bandcamp e sul suo blog

lunedì 19 dicembre 2011

Dead Can Dance

Ma guarda te, i Dead Can Dance: hanno pubblicato due ep dal vivo gratuiti, in download dal loro sito.
Non li ascoltavo da parecchio tempo: direi dal quarto album, quello con il serpente in copertina. Ah no, avevo sentito anche l'ultimo cd, "Spiritchaser", ma non era andato oltre un paio di ascolti distratti.
Per un certo periodo sono stati un punto di riferimento: il post-punk/dark del primo album, le ambientazioni via via più medievaleggianti/folk/neo-classiche dal secondo album in poi, la voce surreale e ultraterrena di Lisa Gerrard (grandi dosi di riverbero e grandi doti vocali naturali), l'esperienza laterale di This Mortal Coil.

Ricordo un concerto fantastico all'Odissea 2001, credo fosse il tour del secondo album, grande impatto sonoro tra strumenti elettrici, acustici e percussioni, Lisa di bianco vestita e ieratica, Brendan Perry con i capelli da paggio medievale a guidare una grande band.
Poi si sono (in)(ev)oluti verso il medioevo, sino a scomparire tra il rumore di fondo del mondo[1], altri erano i fragori alla ribalta, tra psy-noise-slacker-grunge.
Riformati per un tour qualche anno fa, visto in video: Lisa sempre ieratica, Brendan completamente pelato(!), e un suono identico a quello che ricordavo.

Ho ascoltato i due ep: belli, ben registrati, gratuiti: cosa volere di più?
Nah, ma chi voglio prendere in giro? C'è molto da volere di più.
In questi due ep gratuiti c'è un pezzo ancora molto bello ("Nierika"), ci sono alcuni brani interessanti, altri pretenziosi e inutili. Ma tutti, dal primo all'ultimo, sono identici a come erano venti o trent'anni fa, e i DCD sono diventati esattamente come i Rolling Stones o i Pink Floyd, cover-band un po' ridicole di sè stessi, costretti a ripetersi eternamente, con un misto di coerenza e mancanza di coraggio in cui è difficile capire dove comincia il primo e finisce l'altro.[2]

Nel complesso, visto che sono in download gratuito, i due ep sono consigliabili solo:
- a chi non avesse mai ascoltato nulla dei DCD;
- a chi fosse un inguaribile nostalgico degli anni '80 e del dark.
Per tutti gli altri, ci sono cose molto più interessanti in giro.

Note e links:
[1] Citazione da uno dei brani pop italiani più belli dell'anno. Il primo che indovina il brano non vince niente.

[2] Come tanti altri, eh: ma siamo alle solite, è difficile rimanere "artisti" quando l'arte diventa il tuo lavoro. Tocca accontentarsi di essere entertainer, più o meno credibili.
Non c'è nulla di male in questo, solo che a me non interessa.

venerdì 16 dicembre 2011

Frippertronics

Frippertronics è una tecnica musicale perfezionata da Brian Eno e Robert Fripp nel 1972.
Il principio su cui si basa è quello del "loop". Non una cosa nuova nemmeno all'epoca: i tape-loop erano già stati usati nella musica sperimentale/elettronica fin dagli anni '50.
Già i Beatles ne avevano fatto uso, ad esempio in "Tomorrow Never Knows" vennero usati i tape-loops realizzati amatorialmente da Paul McCartney, e qualcosa di simile a Frippertronics era già stato realizzato da Terry Riley.

Nei tape-loops, cioè "anelli di nastro", un suono viene registrato su un nastro, poi il nastro viene tagliato ed incollato creando un vero e proprio anello, generalmente della durata di qualche secondo, che viene poi riprodotto attraverso un registatore senza soluzione di continuità.
La stessa tecnica del tape-loop era ad esempio alla base di uno strumento come il Mellotron, che non era altro che una tastiera che associava ad ogni tasto un nastro con la registrazione di una nota musicale di uno strumento.
Che a sua volta è la stessa tecnica, trasportata nel dominio digitale, dei campionatori, che realizzavano la registrazione non più su nastro ma in forma digitale, con tutti i vantaggi di possibile manipolazione successiva di quanto registrato.

Ed è la stessa tecnica che sta alla base dei chorus e dei delay[1] (analogici e digitali), che non sono altro che variazioni sul tema della riproduzione con un ritardo più o meno lungo del suono originale.
E, per finire, è la stessa tecnica che ha portato ai registratori digitali, a loro volta nulla più, tecnicamente parlando, di un delay digitale o di un campionatore con tempi di campionamento enormi.

Frippertronics introduceva una significativa novità: attraverso l'uso di due registratori a nastro in serie era possibile registrare e riprodurre nello stesso tempo.
La chitarra veniva incisa sul nastro dal primo registratore, il nastro scorreva fino al secondo registratore dove veniva riprodotto e contemporaneamente reinviato, via mixer, al primo registratore, dove il segnale veniva mixato alla chitarra suonata in diretta e reinciso.
Il loop era quindi "virtuale"[2], realizzato attraverso i collegamenti dei due registratori e non più fisicamente con forbici e colla.
Attraverso i successivi passaggi, la registrazione più vecchia veniva via via attenuata dalle caratteristiche fisiche del nastro e dal continuo processo di re-incisione. L'immagine qui sotto esemplifica il procedimento:


Al giorno d'oggi esistono sia pedali digitali [loop-machine] che effetti virtuali che replicano grosso modo questo procedimento, diretti discendenti dei primi delay digitali che venivano usati qualche anno fa allo stesso modo dei due regitsratori dei Frippertronics.

Uno di questi, un VST gratuito per Windows, è Elottronix[3] della Elogoxa, prodotto in due versioni (normale ed XL) ed è modellato proprio sullo schema riportato poco sopra.

Lo stesso Ableton Live[4], uno dei software di DAW[5] più originali sul mercato, è in realtà una macchina da loop enorme, che offre possibilità inimmaginabili all'epoca dell'invenzione dei Frippertronics.

L'applicazione concreta dei Frippertronics è rintracciabile in diversi album di Fripp e Eno.
L'album "Let the Power Falls" (sottotitolo: "An album of Frippertronics") è l'applicazione più notevole, ma altri esempi si possono trovare su "No Pussyfooting", "Discreet Music", "Evening Star".
Ci sarebbero anche le teorie elaborate da Fripp intorno ai Frippertronics, ma ve ne faccio grazia.


Note e links:
[1] Dei delay digitali si è già parlato qui.

[2] La lunghezza del loop (o delay) era proporzionale alla distanza "fisica" tra i due registratori.

[3] Maggiori informazioni su Kvr, la bibbia degli appassionati di DAW e strumenti virtuali.

[4] Non esattamente a buon mercato, da 350 a 700 euro per le diverse versioni, e 100 euro per la versione base, ma a questa cifra Ableton Live offre un'interfaccia tra musicista e computer (La "Session View") davvero unica ed innovativa.

[5] Digital Audio Workstation, cioè un programma che trasforma un computer in, semplificando, un registratore digitale.
Semplificando perchè, attraverso la tecnologia VST, sviluppata negli ultimi quindici anni dalla Steinberg, è possibile avere su un normale computer effetti (VST) e strumenti (VSTi) virtuali, che rendono disponibili a tutti suoni e tecniche di elaborazione che solo vent'anni fa non erano immaginabili neppure nei più costosi studi di registrazione.

[6] Aggiungo, che me li ero dimenticati, alcuni links per chi volesse ascoltare al volo qualcosa: una dimostrazione dei Frippertronics e due pezzi, 1986 e 1987, dall'album "Let the Power Falls".

mercoledì 14 dicembre 2011

Cose intelligenti dette sulla musica - terza parte

Dunque: questa me la ricordavo in un'intervista a John Entwistle[1] su un Mucchio Selvaggio dei primi anni '80, credo il nr. 43 (?)
Non avevo voglia di andare in cantina a riaprire scatoloni, ma per fortuna l'ho trovata sul sito della BBC.

"I'm only interested in heavy metal when it's me playing it," John once said,"I suppose it's a bit like smelling your own farts."[2]

Che altro dire? Mi sembra che non servano commenti.
A meno che non si voglia cominciare a dire che Entwistle di musica non capiva un cazzo, che era arrogante e provocatorio, che era prevenuto e offensivo, e via di seguito.


Note e links:
[1] Di John Entwistle si era già parlato in questo post, tra l'altro proprio a proposito di tecnica strumentale e percezione della stessa.

[2] "Mi interessa l'heavy metal solo se sono io a suonarlo. Penso che sia un po' come annusare le proprie scoregge".

lunedì 12 dicembre 2011

Questa non è musica, dai!

Lucrecia Dalt[1] - Congost (2009)
Dalla Bolivia. Medellin, pensate un po' (e qui avrei potuto inserire una battuta stupida sulla nostra eroina, e invece ho evitato).
Elettronica, loop di chitarre, un po' di folk, voce sussurrata, etc.
Un pezzo come "Ceniza" è di una bellezza incredibile, c'è anche il video, che, tra le altre cose, mostra come si possa costruire un pezzo in tempo reale per sovrapposizioni di loop di chitarra.
Lo trovate su "Congost", il suo disco del 2009 (a nome di "The Sound of Lucrecia") di cui è uscita recentemente una nuova edizione a nome di Lucrecia Dalt.
Per l'italiana La Bèl NetLabel ha pubblicato quest'anno un ep in download gratuito, in collaborazione con F.S. Blumm, intitolato "Quatro Covers": un pezzo a testa per Osvaldo Farres (non so chi sia), Iggy Pop, Burt Bacharach e Simon & Garfunkel. Indietronica "di classe"?

Nils Frahm[2] - Felt (2011)
File under: "modern classical".
Che sarebbe musica fatta con strumenti orchestrali classici, arricchita dai timbri dei synth e dalle possibilità dell'elaborazione elettronica del suono.
In sintesi, niente batterie pestate nè assoli di chitarra a pioggia. Altamente sconsigliato agli amanti dei baracconi mediatici: con un certo orrore mi rendo conto che di questo qui non ho mai neppure visto una foto.
Ha collaborato un po' con tutti nell'ambiente, da Peter Broderick (vedi sotto) a Machinefabriek, da Lucrecia Dalt (vedi sopra) a Emphemetry (vedi post precedente: "La musica moderna fa schifo").

Peter Broderick[3] - Home (2008)
"Music for Confluence" dovrebbe essere il suo ultimo disco in ordine di tempo, ma vista l'iper-produzione del nostro, che ha pubblicato più o meno un milione di dischi negli ultimi cinque anni, è impossibile esserne sicuri. Questo è una colonna sonora: album discreto, ma tra le sue produzioni preferisco "Home" del 2008 e "How They Are" del 2010, cioè quelli più vicini alla forma canzone.
Rispetto a Frahm, Broderick fa un lavoro di ricerca più orientato sulla composizione pura che sulle sonorità.
Polistrumentista, ha pubblicato anche un album di "duetti con sè stesso", suonati alternando due strumenti alla volta (piano, violino, viola, chitarra, etc.)

Noveller[4] - Glacial Glow (2011)
Pseudonimo della newyorkese Sarah Lipstate, già collaboratrice di Rhys Chatham (Guitar Army) e Glenn Branca (ensemble delle cento chitarre) è una sperimentatrice delle possibilità sonore della chitarra. Archetti, pedali elettronici, loop e rumori assortiti: Glacial Glow è l'ultimo disco ed è il più accessibile della sua produzione.
Trovate quasi tutto sul suo sito Bandcamp.
Su Youtube invece ci sono parecchi video live molto interessanti, ad esempio questo.


Note e links:
[1] Qui trovate il sito di Lucrecia Dalt, e qui il download di "Quatro Covers".

[2] Qui il sito di Nils Frahm, e qui una sua discografia.

[3] Qui il sito di Peter Broderick, e qui una sua discografia.

[4] Qui il sito di Sarah Lipstate/Noveller.

venerdì 9 dicembre 2011

Sentire e ascoltare: le parole della musica.

Nell'illustrazione: organo del corpo umano completamente inutile per gli appassionati di dischi in vinile e di gruppi rock in maschera

Sentire e ascoltare[1]: i due verbi non sono sinonimi.
Senza andare troppo in profondità nella grammatica italiana, ascoltare significa sentire consapevolmente, con particolare attenzione. E' la stessa differenza che c'è tra vedere e guardare.
Quando ci si riferisce alla musica, sembrerebbe che l'unico verbo adatto fosse ascoltare.
E invece no. La maggior parte delle persone si limita, curiosamente, a sentire.
Così facendo, come è ovvio, si perdono i significati che solo l'ascolto è in grado di veicolare: il semplice sentire non riesce a fornire un'esperienza appagante e completa.
E allora, per trovare i significati, diventa necessario rivolgersi altrove. Agli altri sensi, di solito: e così nascono le cazzate le teorie sull'importanza della copertina del disco, dell'odore del cartoncino e finanche del sapore e del colore del vinile.
Senza dimenticarsi la cazzata la teoria principe: l'analisi dei testi.
In un paese che ha una formazione musicale scolastica praticamente nulla, niente di strano. Se, come il 99% dei critici musicali, non sei in grado di parlare della tua materia con cognizione di causa, ti rifugi in quello che sei in grado di capire: guardare le copertine e leggere i testi.

Una delle citazioni preferite da chi non riesce/non è in grado a parlare di musica è questa[2]:
"Parlare di musica è come ballare di architettura".
Frase, a quanto pare, di Elvis Costello (le varie attribuzioni a Zappa, Burroughs, Mingus etc. sono errate).

Ma, come dice Franco Fabbri[3]:
"...la frase vorrebbe significare che usare un linguaggio a proposito di un altro è assurdo e un po' buffo, e che i critici musicali hanno pretese patetiche.
Mi spiace per Costello, uno dei musicisti che amo di più, ma è la frase ad essere buffa, e un po' patetici quelli che la citano gongolando, come se risolvesse il loro disprezzo per i discorsi sulla musica.
...è poi così strano usare linguaggio a proposito di un altro (con una funzione metalinguistica, si direbbe tecnicamente?)
Gesticolare di gastronomia: non lo facciamo tutti, noi italiani?
E poi, sono i musicisti per primi che parlano di musica. Spesso con un linguaggio diverso da quello dei critici, diverso da musica a musica, diverso da quello che usa chi non è nè musicista nè critico. magari fatto di segnali, di messaggi in codice, di metafore: ma è così che ci si capisce, quando si lavora insieme attorno alla musica.
E non parlano di musica proprio tutti, anche quelli che non possiedono un gergo tecnico, ma vogliono comunicare quello che provano quando ascoltano, le loro preferenze, i loro rifiuti? Sì, non ci dovrebbe essere niente di strano, di illogico a parlare di musica, o a scriverne..."


E Fabbri è fin troppo buono, eh: perchè la maggior parte delle recensioni di dischi è scritta da gente che non ha a disposizione un lessico tecnico-specialistico, e soprattutto non conosce l'abc della musica: saper suonare uno strumento.

Quindi, ecco le quattro categorie di recensione musicale che mi provocano la pecòlla:
  • la recensione che parla solo dei testi.
  • la recensione che cita armonia e melodia senza sapere di cosa sta parlando, composizione e arrangiamento senza che il recensore abbia mai nemmeno provato a scrivere una canzone.
  • in alternativa, le solite banalità pseudo-musicali chitarre taglienti, batterie potenti e bassi profondi. E queste ultime due categorie di recensori almeno ci provano, usando il linguaggio a loro disposizione. Cercano di comunicare.
  • la recensione che rinuncia del tutto a parlare di un disco specifico, e descrive le sensazioni provate dal recensore durante l'ascolto. Di solito da questo tipo di recensione si coglie prefettamente la bravura tecnica del recensore nell'uso della lingua italiana, e nulla del disco in questione. Tipo di recensione inoltre perfettamente intercambiabile e riutilizzabile all'infinito: basta cambiare il titolo e va bene per qualsiasi disco.


Note e links:
[1] I due verbi uniti (Sentireascoltare) fanno una delle poche riviste, sia pur on-line, di musica che ancora leggo con regolarità.

[2] Riciclo da un commento lasciato a un post di qualche tempo fa.

[3] Tratto da "L'ascolto tabù" di Franco Fabbri, che dedica alla frase un capitolo (pg. 252/254).

venerdì 2 dicembre 2011

Claudio Rocchi

E io che me lo sono sempre confuso con lo zingaro felice, Claudio Lolli.
Non avevo mai colto la differenza, nè realizzato che fossero due persone diverse, il Lolli ed il Rocchi.
E invece il Rocchi è quello che ha suonato negli Stormy Six, il fricchettone, lo sperimentatore, quello che è stato in India e ai festival pop degli anni '70.
Ne ho letto sul blog della Scighera qualche mese fa, è stata una folgorazione.
"Volo magico n. 1" è un pezzo - musicalmente - di un'attualità sconvolgente. Poi certo, il testo è un po' troppo "peace&love", ma è del 1971 (!), e quindi ci sta.

La musica è, accidenti, avanguardia pura, tra folk e psichedelia.
Direi che dovrebbe stare in ogni antologia di rock italiano, e non capisco come possa essere scomparso dalla memoria collettiva così in fretta, che son risucito a interessarmi di musica italiana per più di 25 anni prima di sentirlo nominare.
Se non l'avete mai ascoltato prima, fatelo.


Note e links:
Il sito ufficiale di Claudio Rocchi è piuttosto brutto, ma può essere un punto di partenza, insieme con il post ricordato sopra.

La sua produzione è stata piuttosto ampia e varia, di quest'anno un LP in collaborazione con i vercellesi Effervescent Elephants, storico gruppo psychedelico degli anni '80 ("Claudio Rocchi & Effervescent Elephants" per Psych Out) e un album solo (il 19°), "In alto", pubblicato dalla Cramps.

Un bel riassunto discografico lo trovate ad esempio sul blog di christo70.

mercoledì 30 novembre 2011

Cose intelligenti dette sulla musica - seconda parte

Secondo episodio di "cose intelligenti" [1]
Il punto è: non se ne sentono moltissime di cose intelligenti in giro, e quindi se qualcuno ne dice una, mi sembra giusto dargliene atto e recuperarla qui, mettendola a disposizione di chi non l'avesse sentita.

Oggi parliamo di Giancarlo Onorato [2] (lui lo scrive, sa dio perchè, gianCarlo) che, parlando di testi e musica, dà una definizione perfetta del loro rapporto:
"Sangue bianco è principalmente un disco di musica. Un disco in cui anche le parole vogliono essere parte della musica. Questo lo distanzia da tutto quanto io abbia sinora prodotto, per il semplice fatto che non si tratta di un'opera narrativa come era Falene bensì essenzialmente musicale. Le parole di Sangue bianco non sono meno importanti di quelle degli altri miei dischi, ma sono incarnate nelle composizioni e vivono della musica di cui fanno parte. Una simbiosi che non vuole più essere canzone nel senso solito. Io sono al contempo regista e autore della colonna sonora di un'opera la cui visione scorra nella mente di chi ascolti."[3]

Oh, perfetta è anche un po' esagerato, perchè in ogni frase di Onorato c'è l'eco del troppo, del suo essere più dannunziano di D'Annunzio, sempre eccessivo e magniloquente [4].
Però se togliamo i riferimenti al disco di cui si sta parlando, e rimane una definizione, questa sì, veramente perfetta:
"Le parole sono incarnate nelle composizioni e vivono della musica di cui fanno parte"

Questa è per me la descrizione ideale di come deve essere guardato il testo di una canzone: un'entità che da sola non esiste e che ha senso solo come parte della canzone, che è fatta di musica e parole, insieme.
E ha, secondo me, ancora più valore perchè viene da un'artista che per lungo tempo ha fatto delle parole la sua "arma" principale, incarnando (provandoci, almeno) l'ideale di "artista globale", musicista, poeta, scrittore e pittore, performer etc.
E' una frase che denota una lucida intelligenza, che a Giancarlo/gianCarlo non è mai mancata, ed è bello sapere che l'ha mantenuta intatta negli anni.


Note e links:
[1] Una delle frasi celebri di David Bowie è senz'altro quella in cui lui sosteneva di avere deciso, a un certo punto della sua vita, di riutilizzare come proprie le cose intelligenti che avesse sentito dire da chiunque, come se fossero state sue.
Che è tra l'altro una delle basi su cui ha costruito la sua carriera musicale fatta di un cambio continuo di prospettive ed orizzonti (beh, continuo: diciamo almeno fino a "Scary Monsters" che dopo comincia il lungo declino di DB, non più in grado di cambiare davvero, fino a doversi limitare - proprio lui - a riciclare le sue vecchie cose)

[2] Che è l'ex-cantante degli Underground Life, come loro sempre in bilico tra l'underground e il mainstream, senza mai risucire a fare un passo deciso da una parte o dall'altra, nemmeno nella sua ormai decennale produzione solistica.
Ma parlare degli Undergorund Life e di Giancarlo Onorato è per me molto difficile, per quanto sono stati importanti entrambi nel mio percorso musicale, quindi rinuncio a farlo qui ulteriormente e rimando a un prossimo post.

[3] Frase tratta da un'intervista rilasciata a SentireAscoltare, che potete leggere qui, a proposito del suo ultimo disco, "Sangue Bianco".

[4] E pure pomposo e tronfio a volte, direi, se non fosse che, come ho appena detto due note sopra, gli voglio troppo bene per parlarne male.

domenica 27 novembre 2011

La musica moderna fa schifo

Recensione cumulativa, che io alla recensione canzone per canzone, con l'inevitabile uso delle solite banalità giornalistico-musicali (chitarre ruggenti, bassi roboanti, batterie potenti) sono allergico alquanto, e allora velocemente vi parlo di questi (pessimi) dischi di "musica moderna"[1].

Giampiero Riggio[2]
Tra Palermo e la Germania (ma non ho idea del perchè), tra folk ed elettronica (folktronica credo la chiamino, ed è una delle cose che al momento trovo più interessanti) tra chitarre acustiche e loop in reverse, ha pubblicato un disco bellissimo ("Separations" per la Centre of Wood, 2008) e due dischi fondamentali per la Woolshop Productions.
Uno, "Summary of Symbiosis" (2010) purtroppo è fisicamente esaurito, ma quei cretini dell'etichetta invece di ristamparlo lo hanno reso disponibile per il download gratuito da Bandcamp. Gentaglia.
L'altro è doppio, si intitola "Watschenbaum/Hold", è bellissimo e costa 7 euro.
Fossi in voi, con la stessa cifra mi comprerei un dodicesimo del biglietto per il concerto di Paul McCartney a Milano, mica un lavoro di un brufoloso adolescente (forse, cazzo ne so di quanti anni/brufoli abbia Giampiero Riggio?)

BeMyDelay[3]
Fantastica. Già membro (membra?) di Massimo Volume, Franklin Delano e Blake/e/e/e, Marcella Ricciardi è una versione attualizzata degli Spacemen 3 (complimento) misti a un po' di drone, rumore, feedback e qualche suono acustico.
"ToTheOtherSide" è uno di quei dischi che ti fanno venire voglia di prendere la chitarra in mano e suonare un po' (complimentone).

Richard Skelton/A Broken Consort[4]
Due riedizioni "complete" di lavori che erano stati pubblicati in tempi diversi, con aggiunta di inediti: "The Complete Landings" e "the Complete Crow Autumn".
C'è una differenza con le solite raccolte del cazzo "De Luxe Edition"?
Certo che c'è: i lavori originali sono esauriti, e questa ristampa è solamente digitale: scaricate le canzoni da Bandcamp, e se proprio ci tenete vi fate un bel cd col masterizzatore.
Il prezzo, di conseguenza, è di 8£ a raccolta, cioè circa 1/3 del prezzo che avreste pagato per i lavori singoli su cd. Mica tutti pubblicano ristampe solo per prendere per il culo i fans...

Emphemetry[5]
Da Derby, Inghilterra, scoperto per caso su un blog, straordinario: folktronica e acustica, drone e folk, ma soprattutto belle canzoni. Il disco si chiama "A Lullaby Hum For Tired Streets", ordinato al volo via web, tra i miei preferiti di quest'anno.
Emphemetry è lo pseudonimo di Richard "Biff" Birkin, e il disco è anche disponibile gratuitamente per il download da Bandcamp.



Note e links:
[1] Ovvero, suonati e registrati in questi ultimi mesi, da gente che a volte osa avere meno di 60 anni. Come possono non fare schifo?

[2] Il sito di Giampiero Riggio. Qui trovate i link a Bandcamp, Facebook, MySpace, etc.

[3] Il disco lo trovate sul sito della Boring Machines, ed è in streaming integrale su Breakfast Jumpers.

[4] Il nuovo sito di Aeolian Editions su Bandcamp, altri link sparsi in giro per questo blog.

[5] Li trovate sul sito di Time Travel Opps, e anche sul sito dell'italiana "Roba Triste", che ha stampato l'edizione in vinile del disco.

giovedì 24 novembre 2011

Black music e heavy metal

Premessa[1]: visto l'argomento, le accuse di razzismo sono praticamente inevitabili, così lo dichiaro subito e non ne parliamo più: sono assolutamente razzista. Penso che gli amanti dell'heavy metal di età superiore ai 15 anni siano una razza inferiore.

Ragionando a proposito di musica nera (soul/r'n'b/funk/rap/disco o quello che volete voi) mi sembra di poter individuare alcuni caratteri comuni[2] tra quella e, insapettatamente, l'heavy metal.

1 - La "baracconaggine".
Ovvero tutto quel contorno di lustrini, pagliacciate, eccessi scenici da avanspettacolo che va dai mantelli e dalla corona di James Brown alle mascherine dei Kiss.

2 - Musica rigidamente strutturata.
Sono musiche senza anima, rigide e strutturate, dove la fredda perfezione tecnica e l'ostentazione del virtuosismo sono molto più importanti delle idee.
E questo mi è sempre sembrato tanto più inspiegabile per una musica che si autodefinisce "Soul". Dov'è l'anima in una musica così rigidamente strutturata, con i musicisti che addiritura eseguono balletti coordinati mentre suonano (!), senza nessuno spazio di improvvisazione?
Nell'heavy metal siamo esattamente nella stessa situazione: strutture rigide, improvvisazione (?) limitata all'assolo dell'axe-man di turno. Nulla di particolarmente eccitante.

3 - Ossessione per eccellenza e bravura tecnica.
Qui devo citare Simon Reynolds, da "Hip-hop-rock 1985-2008", un brano che spiega quello che anch'io penso del soul/r'n'b e della musica nera in generale:

"...i musicisti neri, anche nella loro versione più rumorosa ed aggressiva, sono sempre un po' troppo leccati e trattenuti, quasi schiavi di ideali come "levigatezza" ed "ostentazione". Concetti come "meno è più" e il valore del "non virtuosismo" (la limitazione è la madre dell'inventiva, sosteneva Holger Czukay) non attecchiscono nella musica nera, anche in quella più legata al rock. Sembra che questi artisti non abbiano conosciuto il punk: la bravura è segno di orgoglio, e padroneggiare il proprio strumento significa quasi essere padroni di sè stessi."

Per l'heavy metal grosso modo siamo lì: anche se la bravura tecnica generalmente si riduce al suonare il più velocemente possibile il solito assolo pentatonico.
E' anche vero che la velocità è un parametro "utile", in quanto capibile anche da chi non capisce un cazzo di musica e/o tecnica strumentale (cioè il tipico quindicenne appassionato di metal).

Questi sono solo alcuni dei punti di contatto che vedo tra black music e metal.
Non voglio sostenere nè che la musica black e il metal siano fatte solo di questi aspetti (sarebbero altrimenti una cosa sola) nè che non esistano altre caratteristiche proprie di queste due musiche.
Però mi incuriosisce molto questa forma di contatto tra due musiche che sembrerebbero non avere nulla in comune.


Note e links:
[1] Uff, sono ancora qui, nonostante cinque giorni in ospedale...
Per festeggiare, garantendo nel contempo diversi anni di future e sterili polemiche musicali, ne ho messa insieme una bella nuova, seppur rintracciabile nella sua prima formulazione in alcuni commenti da Harmonica e DiamondDog.

[2] Quello che sostengo qui di seguito è che alcune caratteristiche dalla black music mi ricordano alcune caratteristiche della musica metal. E sono, guarda caso, le caratteristiche che mi fanno preferire altri generi a questi.
Non sono forse quelle più rappresentative in assoluto, ma sono quelle comuni ai due generi in questione.

venerdì 18 novembre 2011

Mazzy Star - Common Burn / Lay Myself Down

Nuovo singolo quindici anni dopo l'ultimo album, "Among My Swan", uscito nel 1996.
Giudizio: non pervenuto.
Due pezzi che, volendo, potrei definire innocui, più in linea con gli inutilissimi lavori di Hope Sandoval coi Warm Inventions che con il già trascurabile "Among My Swan" di cui sopra. Ma non voglio.

Non voglio perchè c'è la chitarra di David Roback, e c'è Hope alla voce.
E loro due insieme hanno fatto un disco fondamentale come "So Tonight That I Might See", con su nove pezzi bellissimi e, come decimo, "Fade Into You". Che è oltre il bello.
E allora, visto che sembra ci sia un nuovo album in arrivo a breve, sospendo il giudizio su queste due nuove canzoni e spero[1].
Magari non in un nuovo "So Tonight...", ma almeno in una via di mezzo tra "Among my Swan" e "She Hangs Brightly", sarebbe già un bell'ascoltare.


Note e links:
[1] Tanta bontà mi preoccupa. Devono essere i primi segni di rincoglionimento senile (i primi che riconosco io, intendo), oppure non sono ancora guarito dall'innamoramento per Hope. Che poi è la stessa cosa del rincoglionimento...

mercoledì 16 novembre 2011

Yo La Tengo - The Summer

Note e links:
"Fakebook" è un album non propriamente centrale nella discografia degli Yo La Tengo, fa da spartiacque tra i primi album (acerbi) e il primo loro "vero" disco, "May I Sing With Me", coincidente con la nascita della formazione definitiva.
E' un disco di folk prevalentemente acustico, composto di undici cover (Cat Stevens, Gene Clark, Kinks, Daniel Johnston, John Cale, Flamin Groovies, etc.) e cinque originali, due rifacimenti acustici di pezzi già editi e tre inediti, uno dei quali è proprio The Summer.
Che è di gran lunga il pezzo migliore dell'album.

Pezzo molto semplice: gli accordi sono F#, C#, G#, B, tutti maggiori e suonati con il barrè, con pennate insistite sulle tre corde basse della chitarra acustica.
Si può anche suonare il pezzo ad accordi aperti, alzando il tutto di un semitono (G, D, A, C), però perdendo l'effetto ritmico dato dallo spostamento sulla tastiera degli accordi col barrè.

La struttura del pezzo è semplice come gli accordi:
- | F# C# | per l'intro
- | F# C# | F# C# | F# C# | G# B | per il chorus
- | F# C# | G# B | per l'ending
in particolare, la struttura è la seguente:
- intro x 2
- chorus cantato x 2
- chorus con chitarra arpeggiata
- chorus cantato
- chorus con chitarra arpeggiata
- chorus cantato (da qui fino alla fine: batteria con rullante)
- chorus con chitarra arpeggiata
- ending cantato x 2
- ending con chitarra arpeggiata x 3

In sintesi la canzone è un chorus ripetuto dall'inzio alla fine (intro ed ending sono semplicmente la prima e la seconda parte del chorus), davvero minimale.
Le variazioni non sono affidate alla struttura ma all'arrangiamento: dopo il primo chorus cantato una seconda chitarra elettrica sottolinea l'accordo di F# con una semplice pennata; le parti cantate sono separate da parti identiche in cui un arpegio i chitarra sostituisce la voce; dal terzo chorus cantato la parte della batteria diventa molto più tradizionale con l'aggiunta del rullante.
Alla base di questo tipo di arrangiamento c'è, se vogliamo, un'estetica molto "punk", che fa della semplicità il suo centro, mentre la chitarra acustica in primo piano (e i suoni più in generale, batteria, basso e chitarra elettrica molto puliti) danno un sapore simil-folk al pezzo.

Un pezzo così dimostra ancora una volta come non sia necessario battere record di velocità nè usare metri strani per scrivere una grande canzone, ma solo un po' di buon gusto.
E direi che se c'è una cosa che non manca agli YLT è proprio il buon gusto: la loro immagine assolutamente normale di Ira, Georgia e James, tre ragazzotti bruttini che però suonano canzoni meravigliose sembra rispecchiare esattamente il loro modo di essere. Che magari di persona sono tre stronzi assoluti, ma mi piace pensare che loro siano esattamente come appaiono nello straordinario video di "Sugarcube", uno dei video più divertenti che mi sia mai capitato di vedere.
L'immagine di apertura viene proprio da questo video e ritrae uno dei professori della "Rock Academy" che gli YLT sono costretti a frequentare dalla casa discografica per aumentare le potenziali vendite.

venerdì 11 novembre 2011

Lo strumento musicale più antico del mondo

Lo strumento musicale più antico del mondo
Ha 35mila anni, è fatto con un osso di avvoltoio preistorico ed è lungo 22 centimetri. Sarà per la prima volta in Italia in occasione della mostra Homo Sapiens al Palazzo delle Esposizioni, a Roma. Si tratta di un flauto, ritrovato nel 2008 in un sito archeologico in Germania, a Ulm. E' conservato all'Università di Tubingen. Si chiama Flute 1, perchè è il più antico dei cinque flauti ritrovati finora in tutto il mondo.

(Da "Repubblica on line" di oggi, 11 novembre 2011)

Purtroppo il noto quotidiano non aveva a disposizione le ultime ricerche dell'Università di Tubingen riguardo a questi antichissimi strumenti.
"Place to Be" invece si: questa è la conversazione tra Oohhffmmgb, giovane appassionato di musica rock[1] e il suo anziano padre, Hommggffbb, che a 32 era comunque ancora abbastanza in forma (gli rimanevano la bellezza di dodici denti!) ma apprezzava - giustamente - la musica "dei suoi tempi".

Oohhffmmgb - Hey papi, hai visto il mio nuovo flauto in osso di avvoltoio? Altro che il tuo vecchio flauto in corno di mammuth... la tecnologia sta facendo passi da gigante di questi tempi!
Hommggffbb - Senti, pirletto: cosa volete mai capire voi giovani di musica? L'emozione che ti da il suono di un buon vecchio flauto in corno di mammuth non è nemmeno lontanamente paragonabile alle vostre diavolerie moderne. Nessun flauto di avvoltoio potrà mai dare le stesse sensazioni che ci davano i nostri: basta prenderne uno in mano per rendersi conto della differenza... il colore, l'odore, il sapore del flauto in mammuth sono tutta un'altra cosa.
Oohhffmmgb - Ma papi, è il progresso! Il flauto in osso di avvoltoio è molto più piccolo e leggero del flauto in corno di mammuth! Vuoi mettere la facilità di trasporto? Lo posso usare anche fuori dalla caverna, quando vado in forestorella con la Giusy[2] che poi me la da più facilmente.
Hommggffbb - (scuotendo la testa) Guarda che anche a me piaceva saltare la cavallina da giovane, ma un flauto all'aperto? Ma come si fa? Certo. il flauto di mammuth puoi usarlo solo nella grotta, ma il suono ne guadagna enormemente. Ci sono i rivereberi naturali della grotta, che ti costringe a raccoglierti, a concentrarti su quello che stai facendo.
Suonare all'aperto, con tutti i rumori e il traffico di uccelli, bestie feroci e mandrie di bisonti, npn ti potrà mai dare le stesse sensazioni, sonore, visive, tattili, olfattive e gustative!
Oohhffmmgb - E' inutile opporsi al progresso, papi: tra breve il flauto in osso di mammuth sarà solo un ricordo, una cosa da bancarelle dell'usato. Il futuro è del faluto in osso di avvoltoio, uno step[3] di evoluzione tecnologica che non credo potrà mai essere superato: siamo arrivati alla fine della storia[4], non sarà più possibile creare ulteriori innovazioni di questa portata.
Hommggffbb - Come no. Piuttosto, io ti dico che, di qualunque materiale sia il tuo flauto, non è più possibile inventare nuove canzoni con le note musicali.
C'è un limite alle combinazioni che si possono inventare, e direi che con le cinque canzoni che già esistono, abbiamo già raggiunto quel limite. Da ora in poi sarà impossibile creare alcunchè di veramente nuovo: si potrà solo rimescolare quello che è già stato fatto - e meglio - dai grandi gruppi della mia generazione, come i Rolling Stones[5].


Qui purtroppo si interrompe il documento.
Sono passati quasi 40.000 anni ed è bello sapere che non sono passati invano: al giorno d'oggi nessuno si azzarderebbe più a parlare di fine della storia della musica o a scambiare oggetti e tecnologie obsolete con il rimpianto per la propria giovinezza...


Note e links:
[1] Siamo nell'età della pietra, quale altra musica avrebbe potuto ascoltare il nostro Oohhffmmgb?

[2] Questo nome è giunto intatto fino a noi, come anche la difficoltà del farsela dare da giovani....

[3] Si, quelli cool parlavano già in angliano (o italese) fin da allora.

[4] E invece, guarda un po', eravamo nella preistoria, e la storia non era nemmeno cominciata.

[5] Esistevano già, ma sicuramente non è una sorpresa per nessuno. Da notare piuttosto che appartenevano già alla generazione precedente.

mercoledì 9 novembre 2011

Cose intelligenti dette sulla musica - prima parte

Dunque, rubrica nuova: "Cose intelligenti dette sulla musica".
E' una scommessa, d'accordo: il materiale a prima vista non sembra poi così abbondante, probabilmente la rubrica non avrà una lunga vita.

Cominciamo con Julian Cope.
La citazione esatta non ce l'ho, dovrei andare a spulciare in cantina, tra i vecchi Rockerilla dei primi anni '80 e non ne ho molta voglia, però a memoria ricordo una cosa del genere:
"Io chiamo la mia musica "soul spastico"[1], perchè non sono tecnicamente abbastanza bravo per rifare esattamente i pezzi che mi piacciono, così ne suono una versione approssimata che diventa poi una mia canzone".

E' una citazione che trovo, trent'anni dopo averla letta, ancora bellissima: c'è dentro tutto quello che per me vuol dire "suonare": provarci. E fanculo la tecnica strumentale.
Che poi serve, d'accordo, ma è un mezzo, non il fine: è la differenza fondamentale tra estetica punk ed estetica metal, e per quanto mi riguarda, mille volte meglio la prima.
Come diceva in un'altra occasione Bernard Sumner dei New Order:
"Io non sono bravissimo a suonare la chitarra o il synth, se voglio ottenere qualcosa magari ci metto più tempo di uno tecnicamente più bravo, ma alla fine ci arrivo"[2].

E c'è anche la descrizione di come spesso nascono le canzoni: certo, l'ispirazione miracolosa e la sofferenza creativa dell'artista fanno molta più scena, ma chi ha suonato in un gruppo e ha provato a scrivere canzoni lo sa, è successo così milioni di volte: senti un pezzo, ti chiedi come è fatto, mentre cerchi di riprodurlo ti viene in mente qualcosa di simile ma diverso, che diventa il "tuo" pezzo. Lo hanno fatto tutti, anche se mica tutti sono abbastanza onesti per ammetterlo.


Note e links:
[1] L'espressione può sembrare forse un po' forte adesso, ma si parla dei primissimi anni '80, un periodo pre-politically correct.

[2] Qui forse ho esagerato, due citazioni per lo stesso post di cose intelligenti dette sulla musica sono effettivamente uno spreco di risorse...

lunedì 7 novembre 2011

Message to Bears - Folding Leaves

Si è chiusa oggi la campagna di raccolta fondi[1] per la stampa del nuovo lavoro di Message to Bears: "Folding Leaves": sono stati raccolti ben 4.720 dollari, cioè 720 in più dell'obiettivo fissato per la campagna.
Ciò vuol dire che, al netto del 4% che viene trattenuto dal sito che ha gestito la raccolta, la cifra a disposizione di Message to Bears/Dead Pilot è più che adeguata a realizzare il progetto, ovvero:

- ristampa del primo ep ("EP1") in cd e vinile;
- stampa del secondo lp ("Folding Leaves") in cd e vinile.

Nell'attesa della produzione fisica dei due lavori, un grazie a tutti quelli che hanno partecipato/contribuito/aiutato in qualche modo.

Certo, ci sono in giro cose per cui spendere meglio i vostri soldi: chessò, concerti di Paul McCartney a 100 euro, o cofanetti Super-Extra-DeLuxe di Rolling Stones o Who.
Io preferisco dare qualche euro a chi è ancora vivo, come Message to Bears e Dead Pilot Records...


ps - ebbene sì, riapre Place to Be.

ps2 - sto rimettendo on line tutti i post di Place to Be e quelli che ho scritto io per Sunday Morning, naturalmente senza nessuna censura, neppure nei commenti.
Sunday Morning è purtroppo morto di solitudine: mi sembrava un bell'esperimento, ma invece di diventare un blog collettivo era diventato il blog di allelimo con qualche contributo esterno, e giustamente non è sopravvissuto al mio ritiro.

ps3 - ricominciamo subito con un po' di polemiche, contenti? :)

xbox360 - battuta scontata (e già usata) ma mi fa ancora ridere...


Note e links:
[1] Ne avevano dato notizia alcuni amici un paio di mesi fa: Webbatici, Enrico/Sull'amaca, brazzz e desbela.

martedì 1 marzo 2011

June Miller e Antigone

Dei June Miller avevo già scritto qui, sul loro blog ci sono stati diversi aggiornamenti.
In sintesi: disco nuovo in arrivo, ma non c'è più alla voce Federica, probabilmente (?) rientrata nel "suo" gruppo, gli Antigone.
Devo dire che molto mi spiace: senza nulla togliere al resto del gruppo, la voce di Federica era una vera marcia in più per i pezzi dei JM.
Sul sito di Komakino, webzine che seguo da parecchio tempo (direi 2001 almeno, avevo letto per la prima volta lì di due gruppi come Moonbabies e Giardini di Mirò) c'è la recensione di un concerto dei JM di un anno fa circa, e c'è soprattutto il video del pezzo acustico qui sotto (ma acustico davvero, chitarra e voce assolutamente non amplificate) da brividi.

Come dice il commento, una breve canzone di poesia e dolore, mentre sullo sfondo le altre persone parlano, ridono, bevono, ignorando completamente quello che sta accadendo sul palco, e ci vuole un coraggio o un'incoscenza colossali per fare quello che fanno qui i June Miller.


Ci sono canzoni così belle che fanno male, e questa può stare tranquillamente insieme, per coraggio e sincerità, a quelle di Nick Drake di cui parla Paolo Vites nel suo post su "Pink Moon", o a quelle di Judee Sill, scoperta da poco grazie al blog appena citato, di cui ascolto a ripetizione da qualche tempo due canzoni incredibili: "The Kiss" e "The Donor".
Poi certo, il vero rock'n'roll non passa mica di qui, passa piuttosto dai Kiss, dagli Ac/Dc, dai Pink Floyd, dai Genesis e dal Boss: come si diceva una volta, "da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo le sue necessità"...



P.s. - Questo post era già pronto qualche tempo fa, prima che i miei cari buoni amici (anonimi e nonimi) mi facessero capire quanto sarebbe stato meglio per il mondo se avessi smesso di partecipare a questo blog.
Poi oggi, facendo il solito giro su indieitalia (niente link, sbattetevi un minimo, su...) ho trovato un video degli Antigone.



In questo periodo di nuovi dischi di Radiohead e Rem, mi sembrava doveroso parlare di qualcosa di veramente bello.
Gli amici di cui sopra stiano tranquilli, questo è un intervento "una tantum": c'è anche la giusta dose di polemica che rovina tutti i miei post e non avrà ulteriori seguiti :)

mercoledì 26 gennaio 2011

Recycle - The Factory Years

Post di servizio per tutti quelli che hanno ancora i Joy Division nel cuore: due bloggers, 50£note e Mr. A.L. hanno realizzato un lavoro che definirei monumentale: la ripubblicazione in forma digitale[1] di tutti i singoli del gruppo, fuori catalogo da tempo, completi di parte grafica ed istruzioni per chi volesse realizzare una copia fisica dei cd.
Lavoro monumentale perchè è la seconda parte del progetto "Recycle - The Factory Years", la cui prima parte ha visto la realizzazione di 20 (!) singoli dei New Order.
Il progetto "Recycle" è un vero e proprio atto d'amore verso la musica di Joy Division/New Order: per ogni singolo i due amici sono andati a cercare la versione che "suona" meglio tra vinili e cd, andando a cercare tutti i formati esistenti (tra 7", 12", ristampe, demo, etc.), riunendo in ogni singolo tutte le diverse versioni, rimasterizzate in modo da farle suonare "bene" insieme.

Due esempi: per "Love Will Tear Us Apart" ai due pezzi del singolo originale ("Love..." e "These Days") sono stati aggiunti "The Sound of Music" e la prima versione di "Love..."[2], registrate insieme a "These Days" al Pennine Studio nel gennaio 1980.
Ci sono anche due remix di metà anni '90, il primo trascurabile e il secondo pessimo...

"Licht Und Blindheit" è invece il singolo pubblicato dalla piccola etichetta francese Sordide Sentimental contenente "Atmosphere" e "Dead Souls".
In questa riedizione sono presenti anche Ice Age (pitch corrected) e una seconda versione di Dead Souls (pitch corrected), nelle note della release è spiegato in dettaglio il motivo della pitch correction.[3]
In sintesi, durante la sovraincisione delle parti vocali di "Atmosphere" il nastro era stato accelerato per permettere una intonazione meno difficoltosa a Ian Curtis, e la stessa cosa era stata fatta per gli altri due pezzi registrati nella stessa sessione, ma mentre per il primo la velocità corretta era stata ripristinata durante il mixdown, gli altri due pezzi sono sempre stati pubblicati a una velocità errata.

Insomma, un lavoro assolutamente degno di nota, realizzato professionalmente e con grandissima cura alla qualità del risultato.
Dunque: andate sul sito dedicato al progetto Recycle, scaricate gli otto singoli dei Joy Division e almeno i primi quattro dei New Order, avrete 40 + 14 canzoni da ascoltare nel miglior modo possibile, in modo assolutamente legale e gratuito.[4]


Note e links:
[1] Sono in formato m4a/256k, ovvero il formato "nativo" di iTunes. Chi vuole può inserire qui il solito discorso su formati/supporti fonografici/confezioni. Io li ho scaricati e messi direttamente nell'iPod.

[2] La versione di "Love..." utilizzata per il singolo è quella registrata nuovamente durante le session di Closer.

[3] A margine, questo singolo appena riascoltato mi sembra in serissima competizione con "Strawberry Fields/Penny Lane" per il titolo di miglior singolo di sempre: l'accoppiata "Atmosphere/Dead Souls" è stata assurdamente rilasciata in tiratura limitata per una semi-sconosciuta etichetta francese, una specie di suicidio commerciale per la Factory Records. Che non era una major, e forse questo qualcosa vuol dire...

[4] Sono un po' le sfighe di questa era digital-internettiana, fino a pochi anni fa una cosa del genere sarebbe stata semplicemente impensabile, lasciando così che questa musica fosse conosciuta solo dai pochi eletti che erano riusciti a procurarsi i vinili originali. Ah, bei tempi...

sabato 22 gennaio 2011

Due canzoni

Ma non due canzoni qualunque.
Quelle che per me sono le due più belle canzoni italiane degli ultimi 15 anni, e sono tutte e due di Stefano Giaccone.
Entrambe tratte dal suo primo disco "solo", quello pubblicato nel 1998 con lo pseudonimo di Tony Buddenbrook, "Le stesse cose ritornano".
E siccome la coerenza non è una virtù che molto mi interessi, metto qui i due "video" che ho caricato su YouTube e trascrivo pure i testi, che mi sembrano bellissimi.
Trovare il cd adesso non è facilissimo, ma se digitate "indieitalia" su Google potrebbe essere un buon punto di partenza per recuperarne una copia in m3p o pm3, una di quelle robe lì, digitali e orribili.
E se questi due pezzi non vi piacciono almeno un po', a mio parere potete anche cominciare a preoccuparvi: mica basta respirare per essere vivi.


Il sarto

Ci sarà tempesta dice il sarto
la sua forbice punta il cielo
la mia voce è una moneta di ferro
sepolta nella terra più lontana che so
nemmeno dopo un mese posso scambiarmi
per uno di qua, nemmeno dopo un mese
perchè cammino senza guardare
perchè il mare tra le cabine fa pensare

A qualcosa che ci dev'essere più in là
e bisogna avere occhi chiari e una poesia per ogni luna
o mille palchi o mille torri
per avvistare una vela che non so dire
come sarà, che colore avrà
perchè cammino senza guardare
perchè il mare tra le cabine fa pensare

E il sarto lui fuma, lui ha capito
che non c'è verità che non si possa tagliare o cucire
è solo un gioco di specchi, un gioco di specchi
un'altra estate che finirà

Pure il sarto, lui, è di un altro mondo
da trent'anni taglia stoffe nel modo più esatto
vive nella stanza in affitto con sua moglie
dentro un ritratto
nuvole nere ora ci coprono
ma lui di certo non le vedrà

Le vedo io riflesse negli occhiali scheggiati
come il suo mestiere che muore
ma la sua mano resta precisa come tagliasse qualcosa
solo per me

E il sarto lui fuma, lui ha capito
che non c'è verità che non si possa tagliare o cucire
è solo un gioco di specchi, un gioco di specchi
un'altra estate che finirà
un altro temporale che passerà





Cosa ci siamo persi
(Concerto in Sardegna)

Sprofondato in una nuvola grigia
che non capisco se è il fumo
o sono i miei pensieri
Nel salone del bar i soli che beviamo
gli arabi seduti sono statue
di sabbia e rancore
Non so perchè non riesco a scordare
le ultime parole dette
all'ombra della nostra fine
saranno gli occhi del ricordo
che bruceranno per primi
nella calce bianca dei giorni

Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi

Da questo ponte è bello pensare
che laggiù nella notte
ci sono isole e montagne
La nostra voce ha un'ala spezzata
quattro muri di troppo e pazienza indurita
Da questo ponte è bello pensare
che qualcuno ci aspetta
magari solo per salutare
come vagabondi del Dharma, come Andrè Gide
come se Dio da lassù si mettesse a gridare

Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi

Niente di niente, l'ultima bestemmia
adesso sono stanco anche di fissare le stelle
è l'amore che ci graffia e ci fa ammalare
o è la paura di non poterci lasciare
vedrai che domani anche questo cielo andrà bene
anche questo andrà bene, lo sai

Cosa ci siamo persi
come ci siamo persi



venerdì 14 gennaio 2011

Greil Marcus - Mystery Train. Visioni d'America nel Rock

Libro consigliato da Paolo Vites nella discussione relativa al post sui 40 anni di musica italiana.
Letto e non piaciuto, nonostante il brillante lavoro di traduzione.[1]

Non mi è piaciuto perchè l'ho trovato poco interessante, meglio: è scritto con un'impostazione critica che in questo momento mi interessa davvero poco.
Wikipedia (versione inglese) di questo libro dice: "Il suo libro del 1975, "Mystery Train", ridefinì i parametri della critica della musica rock. Il libro piazza il rock and roll nel contesto degli archetipi culturali Americani, da Moby Dick al Grande Gatsby a Stagger Lee."
Ed è proprio questo il problema: Marcus parla dei testi delle canzoni, mettendoli a confronto con le opere letterarie che definiscono la "cultura americana".

E' un libro in cui si parla fondamentalmente dei testi delle canzoni, e a me interessa la musica.
E' un libro che dovrebbe quindi piacere a parecchi di quelli che girano qui: non parla di musica, ma di tutto quello che c'è intorno, perdendo di vista quello che c'è al centro, parlando tantissimo dei testi, e di quello che ha ispirato quei testi e di quello che quei testi hanno ispirato, e soprattutto di quali pensieri questi testi abbiano ispirato all'autore del libro.
E' un approccio che trovo molto "giornalistico", condito con le classiche banalità da "critico musicale rock" (batterie incalzanti, chitarre taglienti, bassi rotolanti e via stereotipando).
Trovo difficile appassionarmi a questo tipo di scrittura, soprattutto dopo aver letto i libri di Franco Fabbri che mettono al centro del discorso sulla musica, pensa te, la musica!

Per fortuna ci sono anche cose per cui vale lo stesso la pena di leggere questo libro: ad esempio, la visione della società americana degli anni '70 "in diretta" (la prima edizione del libro è del 1975), oppure il capitolo su Elvis Presley "da vivo".
Ma sono cose che hanno poco a che vedere con la musica, anzi, l'approccio musicologico è completamente ignorato[2] a favore di un più banale approccio da critico/fan[3], e la visione della storia della musica di Marcus è fortemente nordamericocentrica[4].
Bontà sua, l'autore ammette che anche qualche inglese (Beatles, Rolling Stones, Clash) ha contribuito alla musica rock, ma questi li chiama "americani immaginari"...

L'analisi sociologica mi sembra appena abbozzata (i Padri Pellegrini, il linguaggio[5] del rock come reazione allo spirito calvinista della società americana) mentre più interessanti sono le parti in cui si parla delle lotte civili e del movimento di liberazione dei neri d'america.
Ma nel complesso, ripeto: un libro sulla musica che non parla di musica.
Parla di testi e contesti, aspetti sociologici e culturali, parla delle copertine dei dischi e della grafica.
E così, la parte più interessante per me è l'intervista che gli fa Paolo Vites in appendice.

Note e links:
[1] Non è uno scherzo, è tradotto piuttosto bene davvero, soprattutto da qualcuno che sa quando è giusto lasciare una parola inglese senza tradurla :)

[2] E' anche vero che lo IASPM è stato fondato solo nel 1981.

[3] Simile in questo, giuro che mi spiace scriverlo, allo stile di Lester Bangs, che in più scriveva quasi sempre di sè stesso, e quasi mai di musica.

[4] E fortemente limitata per al prospettiva storica che evidentemente non poteva avere 35 anni fa, quando oltretutto aveva solo 30 anni: Randy Newman? The Band?

[5] Proprio nel senso puro del termine: le parole delle canzoni...

lunedì 3 gennaio 2011

Cowboy Junkies - Sun Comes Up, it's Tuesday Morning

O è un caso oppure sono proprio i miei gusti ad essere fatti così, ma ogni volta che mi viene in mente una canzone per un post della serie "tecnica", comincio ad analizzare la canzone di cui voglio parlare e mi accorgo, ogni volta, che la struttura è semplicissima.
Anche "Sun Comes Up, it's Tuesday Morning" non sfugge alla regola: e sì che i Cowboy Junkies sono già di loro un gruppo anomalo.
Canadesi, e basterebbe questo ad essere strano per dei Cowboys, che in più sono anche "Junkies", tossicomani. Non esattamente la prima parola che si associa alla figura del Cowboy.

E parlando di musica, anche lì siamo solo vagamente dalle parti dei Cowboy: suonano piuttosto una via di mezzo tra il country, il blues e il folk, "americana" ma vent'anni prima che il termine diventasse di uso comune, e per fortuna avendo cura di non limitarsi mai ad essere esattamente nessuna di quelle cose.
Il mood delle canzoni è blues, malinconico, la strumentazione è country (la lap steel guitar, soprattutto), le canzoni stanno da qualche parte tra rock e folk.
Sono elettricamente acustici, e pure abbastanza noiosi sulla distanza di un album completo. Ma se penso ai Cowboy Junkies mi vengono in mente subito due canzoni straordinarie: la prima è una cover, "Sweet Jane" naturalmente (e naturalmente dei Velvet Underground), tratta dal primo leggendario album dei fratelli Timmins, quello registrato nella chiesa sconsacrata direttamente su un dat[1].
Grande interpretazione ed arrangiamento[2], lo stesso Lou Reed aveva detto che quella dei Cowboy Junkies era la versione del pezzo che lui preferiva.

L'altra canzone è, ovviamente, "Sun Comes Up, it's Tuesday Morning".
Tecnicamente, usa gli accordi di un blues (E A Bsus4), ma del blues non usa nè la struttura nè la cadenza. Non sono assolutamente esperto di musica country, ma da quello che sono riuscito a "scoprire" questa non è neppure una situazione troppo strana per il country.
Nessuna informazione ho trovato invece sulla seconda particolarità della canzone: è composta da due parti leggermente differenti, che potremmo forse identificare come Chorus I e Chorus II[3], che si ripetono alternandosi per tutto il pezzo, una dopo l'altra, quasi due parti complementari.
La prima parte (Chorus I - 8 battute) è:
E - A - B sus4 - A
E - A - B sus4 - A
la seconda parte (Chorus II - altre 8 battute) è:
A - E - A - E
A - E - B sus4 - A

Queste due parti si alternano per 5 volte durante la canzone, e il testo non si ripete mai, scorrendo in un racconto dall'inzio alla fine che ignora la diffferenza tra i due Chorus.
Una particolarità del canto di Margo Timmins è come lega la fine del secondo Chorus all'inzio del primo: le ultime parole vengono cantate sul primo accordo del Chorus seguente, e pronunciate senza soluzione di continuità con la prima parola del Chorus seguente, dopo la quale c'è una breve pausa che "stacca" le parole successive: questo rende ancora più indefinito il passaggio tra i due Chorus, che si legano in modo molto naturale uno con l'altro.[4]
Una breve intro strumentale e una coda finale (dominata dall'assolo di pedal lap steel) incorniciano un pezzo che, a distanza di tanti anni, non mi sembra aver perso nulla del suo fascino.


Note e links:
[1] Dat sta per digital audio tape, ovvero una parolaccia (un registratore che registra numeri, orrore...)

[2] Accidenti, un'altra parolaccia... Domando scusa, oggi mi scappano.

[3] Ho deciso di usare la terminologia proposta da Franco Fabbri (vedi ad esempio le parti dedicate nel libro "Il suono in cui vivamo" all'analisi strutturale delle canzoni di musica popular), la differenza tra la struttura Chorus/Bridge (C/B) e quella Strofa/Ritornello (S/R) va ben al di là della semplice differenza lessicale. Impossibile farne un riassunto in due righe, ma in estrema sintesi la prima è tipica delle canzoni pop/rock, mentre la seconda è tipica della "canzone italiana".

[4] Questo spostare la parte cantata rispetto al susseguirsi degli accordi strumentali è uno stile che si può sentire molto bene, ad esempio, in parecchie canzoni di Nick Drake.